La migrazione dei giganti – 6. Il Primo e il Secondo

di Roberto Albini

Sono due. Il Primo mi mette subito una mano sulla bocca e una sulla gola, poi mi spinge con forza animale dentro casa. Faccio due, tre passi all’indietro, ma inciampo in qualcosa e precipito con violenza sbattendo la nuca su un tavolo. Per un attimo sento i passi dei giganti sfumare, come si fossero allontanati tutti insieme, nello stesso momento, e il bisbigliare rauco e attufato di un uomo. La vita s’è fatta leggera, di colpo, io stesso mi sento intangibile come l’aria mentre giaccio sul pavimento cercando di fare il punto della situazione, di capire cosa stia succedendo. Ho un dolore pungente dietro la testa, uno di quei dolori che si percepisce chiaramente non avere nessuna origine ordinaria. Un altro dolore, penso. Quando giro lo sguardo vedo che c’è del sangue intorno a me. Ha formato una piccola pozzanghera da dove, di tanto in tanto, piccole bolle d’aria vengono a galla per poi esplodere. Il Primo sta in piedi, sopra di me e mi osserva. Ha folte sopracciglia a forma di “V” che si spingono una contro l’altra. Forse sta aspettando una mia reazione, una qualsiasi, fosse anche la mia morte, anche lui probabilmente intento a calcolare la prossima mossa.
Il Secondo sta dietro. Con una mano si gratta una spalla mentre si affaccia guardingo al pianerottolo, per controllare sia tutto a posto, che nessuno abbia visto o sentito nulla. Poi richiude la porta e resta lì, in piedi, grattandosi una spalla. I passi dei giganti sono tornati a farsi sentire prepotenti, e da questa posizione riesco perfino a sentire le vibrazioni che producono. Anche il dolore, prima localizzato e pungente, adesso si è allargato a tutta la testa, che ora sento formicolante come quando ti si addormenta un arto. Non penso che morirò. Non lo penso nemmeno un attimo; credo che piuttosto soffrirò, in una forma nuova, mai sperimentata. Ho paura, una paura totale, ma allo stesso tempo sono calmo e valuto la situazione, per quanto posso. Mi faccio varie ipotesi sulla natura dell’irruzione di questi due, e nessuna contempla la visita di cortesia. Come hanno fatto ad arrivare qui? Come sono sopravvissuti alla marcia dei giganti?
Il Primo mi afferra sotto le braccia, sollevandomi con una facilità sbalorditiva, e mi getta letteralmente sul divano. Non mi ricordo se le macchie di sangue si possono lavare dal tessuto acrilico, sicuramente no, e catalogo questa certezza presunta come il secondo danno grave ricevuto in meno di cinque minuti. Nemmeno la mia ex era riuscita a battere questo record. “Adesso per un po’ stata buona qui”, mi ringhia in faccia. Il Secondo intanto sta sgattaiolando per casa, per accertarsi non ci sia nessun altro, o eventuali pericoli a sorpresa. Lo sento muoversi con la fretta sguaiata di un ratto in cerca di cibo; dopo un po’ spunta da dietro l’angolo del corridoio e, grattandosi una spalla, fa un cenno di assenso al Primo. “Ha vista se c’è da manciare?”, gli domanda. Ma il Secondo muove il capo per dire di no, e quindi risparisce dalla visuale come se avesse ricevuto una scossa elettrica. Io non mi muovo, non dico nulla, mi limito a tenermi la testa insanguinata con una mano, quasi avessi paura di una fuoriuscita del cervello dal buco che mi sono procurato, e seguo tutto con gli occhi.
Il display rosso sul muro segna il numero sedici.
Ci ho messo due minuti a capire che non ho risorse, che non so cosa fare, né come comportarmi. C’è stato un cortocircuito che ha bloccato qualsiasi comunicazione tra l’esperienza e l’azione. Se una ti lascia puoi piangere, distrarti, trovartene un’altra e convincerti che il chiodo schiaccia chiodo sia una regola applicabile in qualsiasi circostanza, ma quando ti coglie l’impensabile ti senti disarmato e fragile, avverti che l’evento ti ha superato e non resta che arrendersi. Sdraiarsi sul tempo come farebbe una zattera alla deriva, sperare che passi il più velocemente possibile e che alla fine si possa tornare sulla terra ferma, per dare il tempo all’esperienza appena vissuta di maturare, contando nel frattempo le orme che ha lasciato dentro di te.
“Mi senta?”, mi domanda il Primo. “Non svenire o muora. Non devi muorire”.
Io faccio di sì con il naso. Non so se per fargli capire che lo sento, o che non voglio morire.