L’altro (Parte VII)

Ed ora eccolo lì, il Marcon Claudio. Grande e grosso, con quel cappellino americano blu in testa, tipico di uno dei prototipi urbani più bassi nella scala evolutiva; la pancia prominente che rotondeggia dietro un maglioncino di finto cotone da dove spiccano le iniziali di un università straniera, che lui sicuramente nemmeno sa dove si trova; i jeans sbiaditi da adolescente sopra un paio di scarpe da ginnastica. Gialle fosforescenti.
In mano porta un cestello di plastica arancione acceso che si intona perfettamente con le scarpe. Sembra sia single. Non chiedermi perché, è una sensazione. Sarà quel suo incedere giovanile, ovvero la rivisitazione della giovinezza che può fare un quarant’enne. E poi quel cestello: dentro c’è solo un barattolo di pelati e ora sta qui a scegliersi la pasta. Stasera mangerà spaghetti con il sugo, un piatto veloce da cucinare, che svolge perfettamente quello che tutti i cibi sono chiamati principalmente a fare, cioè sfamare. Nessuno cucinerebbe mai spaghetti con il sugo a qualcuno al quale vuole bene, perché il nostro rispetto e il nostro affetto nei confronti degli altri si vede anche da quello che gli offriamo da mangiare, dalla passione che ci mettiamo nell’usare con loro la migliore delle nostre intenzioni solamente per vederli soddisfatti. Poi con noi stessi, bhe con noi stessi è uguale, vanno bene pure gli spaghetti, anche un po’ scotti che tanto “nemmeno avevo molta fame”. Insomma, sono questi gli indizi che mi hanno convinto a pensare che Marcon Claudio non viva con nessuno, e che quindi probabilmente non ha una relazione sentimentale stabile.
Quando mi raccontò di Daniele, l’altro, delle stelle, del telescopio, provai rabbia. Rabbia contro me stesso, perché a me le stelle piacevano, e avrei potuto proporlo io a Claudio di andare ad osservare il cielo di notte, invece di dargli sempre retta con quella storia di Daltanius. Avrei potuto proporre io qualcosa di diverso, e non capisco perché non mi sia mai venuto in mente. Magari avrei convinto Claudio a fare qualcosa di nuovo, più attinente anche ai miei gusti, avrei potuto scoprire qualche sua buona qualità. E invece l’altro lo fece prima di me, e io restai solo. Alessandro Angelini e la sua banda dopo due minuti non sapevano più che dire. Non facevano altro di ripetere tutto il giorno in maniera spasmodica, a ciclo continuo, nell’ordine: “Fica”, “Vasco”, Bella fratè”. Tutti quelli che mi circondavano erano o troppo stupidi, o troppo trucidi, o semplicemente gli ero indifferente. Da quando l’altro fece il suo ingresso nella mia vita, una strana nebbia di solitudine iniziò flemme ad allontanarmi dalle persone. Come se qualcuno avesse colpito leggermente una biglia, che grazie a quell’impulso prese a rotolare, lentamente, ma costantemente. L’umanità tranne Marcon Claudio, cominciò a essermi indifferente, innecessaria. Le sere le passavo a guardare il soffitto, a pensare a lui e al suo amico sul terrazzo, all’aria aperta, con il naso all’insù mentre una brezza tiepida gli scompigliava i capelli. E mentre mi rigiravo livido nel letto, non potevo fare a meno di incolparmi per non essere io al posto dell’altro, sulla terrazza, insieme al vento e le stelle. E Marcon Claudio.
Dopo venne l’estate.
Dopo gli esami della quinta quel microcosmo esplose. I miei decisero di cambiare casa, ci trasferimmo in un altro quartiere, frequentai le medie lì. Non vidi più nessuno dei vecchi compagni delle elementari, nemmeno Claudio. Non c’era internet, non c’erano smartphone, c’erano solo i citofoni, e i telefoni di casa. Era molto più facile perdersi di vista, come successe tra noi. Eppure non me lo sono mai scordato, tanto che ancora adesso, ora che sono adulto, quella nebbia ancora del tutto non si è diradata.
Ed ora eccolo lì, il Marcon Claudio.
Chissà se le guarda ancora le stelle. Magari seduto sul tavolo della cucina, gli spaghetti col sugo sul piatto, la t-shirt bianca omaggio del supermercato, macchiata, una bella notta stellata, la finestra aperta, la televisione davanti… Chissà Claudio, se ti ricordi ancora di quando vedevamo Daltanius, e tu mi domandavi quanto era lungo il suo dito. Dei cannonieri del campionato di calcio 1978-79. Chissà se anche tu mi hai pensato tanto quanto ti ho pensato io.
Poi Marcon Claudio, all’improvviso, si blocca con il dito su una scatola da mezzo chilo di fusilli. Rimane un paio di secondi con lo sguardo fisso dopo si gira di scatto e mi osserva. Mi riconosce, si aggiusta il berretto blu, si gratta il mento, mi sorride, apre la bocca sbalordito.
“Daniele, come stai?”.

FINE