Le linee rette in natura non esistono

di Roberto Albini

I morti ammazzati sono tutti uguali. Un pezzo di carne priva di vita, con un buco da qualche parte, steso in attesa più di nulla. E’ questo che mi fa dubitare dell’utilità della mia presenza, in questo momento, in questo ruolo che è un piglio più che un mestiere, di cercare di far diventare tutte le linee rette. A ogni delitto corrisponde un colpevole, ma tutt’e due vivono separatamente, così che quando scoprirò chi è stato a bucare la pancia a questa donna, lei continuerà a essere morta. Quindi perché mi trovo qui? La punizione non raddrizza mai nessuna linea.
La testa mi fa male da questa mattina, nella stanza c’è un odore acre, di sudore ed erbe aromatiche miste a macelleria di periferia. Mi accendo una sigaretta e invece di osservare il morto, inizio a guardare le fotografie appoggiate su grandi mensole di finto legno con finte venature di finta corteccia, agganciate a una parete color pesca. Sono tutte immagini di vacanze, o almeno così sembra alla mia mentalità proletaria. Magari c’è gente che così ci campa tutto l’anno, a mollo in acque limpide che nemmeno quella che esce dal rubinetto nel mio quartiere, oppure sempre in cerca del passaporto nella borsetta, per partire un’altra volta, in un altro posto. Perché poi alla fine in questo, di posto, ci rimane solo chi non sa scappare, o è morto. Le guardo tutte, minuziosamente, mentre l’attendente fa finta di prendere appunti. In tutte è ritratta la vittima. Una volta beve qualcosa in un bar tutto luccicante, in un’altra saluta la telecamera aggrappata a una palma. L’unico soggetto fisso è la vittima, tutto il resto, persone comprese, cambia continuamente. Allora mi giro verso di lei, che adesso non viaggia più, ma che ha viaggiato in vita più di tutta la mia famiglia messa insieme, e gli rivolgo un sorrisino. E’ il mio modo per dirle torna presto.
L’attendente appunta.
Allora faccio un passo avanti. Le finestre sono spalancate, c’è luce dappertutto e il sangue sulla pancia della donna brilla agitandosi alla brezza ormai quasi coagulato. Sembra budino di fragole, e le ha inzuppato tutta la bellissima camicetta di seta color perla, vera, non come quella dei cinesi di mia moglie. A me sembra soltanto una pugnalata. Una, secca, precisa allo stomaco. Un impeto d’ira, poi l’assassino si è ripreso subito, perché non ha inferito, ha capito quello che ha fatto ed è scappato senza nemmeno chiudere la porta così che pure io, che non me ne frega un cazzo di sapere chi è, posso supporre sia stato una che la conosceva. Un fidanzato, un amico, un amante geloso. Che importanza ha una volta che la linea non si può raddrizzare più.
Sopra la morta c’è una sveglia al quarzo rosa con una lucetta a intermittenza viola. Solo nei film gli orologi si fermano all’ora esatta del delitto, questa infatti spacca il secondo. E così ti rendi conto che nella realtà il tempo si misura in base a quanto di quello che hai dentro si è salvato dalla fame dei vermi. Ho visto corpi ridotti ormai a brandelli di muscoli e cartilagini, morti da giorni, dove di umano gli insetti avevano lasciato solo i bulbi oculari completamente spalancati verso una lettera da qualche parte nel vuoto che potevano vedere solo loro. E mi sono stupito di rincontrare quello sguardo una mattina sulle scale di una metropolitana, nell’ora di punta, conficcato dentro quella massa di carne scampata ai vermi che affolla le strade. Il mal di testa peggiora.
Sposto con un piede il braccio del morto, per vedere tante volte quell’idiota del suo assassino si fosse scordato le chiavi di casa. Non mi stupirei. La propensione a rovinarsi la vita con le proprie mani è un dono, come il saper disegnare o avere orecchio per la musica, ed è ineludibile. Invece riesco solo a scoprire un Rolex aggrappato a un polso che non batte più. Non è nemmeno sporco di sangue. Mi accendo una sigaretta.
Nel momento in cui mi chino per sfilarglielo delicatamente, l’attendente sposta lo sguardo sul taccuino continuando ad agitare la penna come stesse scrivendo una commedia. I nostri occhi non si incrociano anche se io li tengo fissi sui suoi. Forse dovrei dire qualcosa. Una frase che giustifichi il mio gesto, lo renda nobile e in qualche modo plausibile alla morale del misero universo che gli abita la mente. Dovrei dargli una lezione di vita, una di quelle che non ho capito mai nemmeno io. Invece resto muto, alzo l’orologio verso la finestra sovrapponendolo al cerchio del sole che si eclissa per un momento. Spengo la sigaretta sopra il marmo lucido di un piccolo tavolo, pigiando con forza sperando mi venga una qualche ispirazione. Ma le linee rette in natura non esistono.