La prima volta che ho amato un oggetto

di Roberto Albini

A pensarci bene, il primo e unico oggetto che ho amato è stato un registratore. Ancora me lo ricordo, come tutte le prime delusioni. Grande come una scatola da scarpe, grigio, di plastica, quando la plastica era ancora fatta di plastica, con uno sportellino trasparente da dove poter osservare il nastro girare. Lo portavo ovunque, era il mio migliore amico, la mia ragazza, la mia unica diversione. Nell’epoca in cui la musica riusciva ancora a conquistare le mie sinapsi, quella fu sicuramente la prima volta che rivolsi dei sentimenti a una cosa. Ricordo perfettamente che avevo la netta sensazione di volergli bene, e sicuramente gliene volli, prima ancora di volerne a una donna. Lo amavo così tanto che a volte lo facevo dormire nel mio letto, con me, per non separarmene, ossessionato dalla possibilità che in qualche modo potesse abbandonarmi. Lui, da parte sua, non faceva altro che svolgere la sua funzione, distribuendo quarantacinque minuti di musica frusciante alla volta, ma a me bastava. Un giorno, quel giorno, in un acuto d’amore per il mio registratore, lo portai in bagno ed ebbi la brillante idea di spruzzargli addosso un deodorante. Non la prese bene. Lo sportellino trasparente, reagendo al mio trattamento di benessere, in un primo momento si opacizzò e successivamente si annerì rattrappendosi sino a creparsi. Di fronte a quella scena rimasi sgomento. Non mi sapevo spiegare come un gesto d’amore potesse finire per distruggere il destinatario stesso di quel sentimento così forte. Mi allontanai commiserando lo scempio che avevo commesso, senza trovare una reazione adeguata da assumere al riguardo. A dodici anni è difficile trovare una posizione da mantenere davanti a una tragedia di cui si è autori e vittime contemporaneamente. Non si è pronti a soffrire da dentro quando a malapena ci si sa comportare nei confronti di una sbucciatura del ginocchio. E, invece, ecco che mi trovavo all’improvviso in piena crisi matrimoniale. Lui non mi voleva più, l’avevo fatto soffrire anche se inconsapevolmente. Dopo quella crepa il mio rapporto con il registratore non fu più lo stesso. Né con lui, né con nessun altro oggetto.
Il registratore finì in una cesta, insieme a pezzi di robot, costruzioni, tasselli monchi di puzzle estinti. Il posto dove si seppelliscono gli oggetti. Anche ora ho un vano di una mensola che funge da cimitero delle cose, tutti ne abbiamo uno in casa. Insomma, da quella volta non ho più desiderato niente che non respirasse. Le automobili per esempio. Tutti pezzi da rottamare, veicoli non macchine. Cose che fungono per quello per cui sono state costruite e null’altro, che non ti costringono a badare allo stato della carrozzeria. Come i miei telefonini, sempre indietro di quindici anni rispetto al presente futuribile ai quali sono destinati.
Adesso che ho finito di scartare, mi viene in mente questa scena. Il mio registratore con la mascherina annerita, io che piango di me stesso in bagno, con la bomboletta spay ancora in mano. Il rimorso di aver destinato tutti i miei sentimenti a un prodotto deperibile e fragile, dipendente dalle pile e sensibile ai deodoranti.
L’espressione, la bocca tutta tesa a pronunciare una “o” estesa, e gli occhi sgranati al cospetto di questo oggetto, di una bellezza simile al mio primo amore, è bene che tu sappia non è frutto di un’anima che geme. E’ piuttosto l’animale che fugge il fuoco, il bambino che sputa la minestrina. La consapevolezza di trovarsi di fronte ad una scelta: costringersi all’esigenza di un amore inutile, o la rinuncia all’amore.
Ti mentirei se non ti confessassi che ormai non piango più quando mi sbuccio un ginocchio. Ma commetterei sicuramente un peccato punito da chissà quale religione, se non ti dicessi anche che ho imparato a non piangere più per amore.
Che a volte basta usare il profumo sbagliato, e tutto cede sotto la pressione delle crepe.