Piccioni

di Roberto Albini

Ci sono pochi piccioni, ormai, lungo la strada che attraversa il parco e arriva alla metro. Non ci avevo mai fatto caso, ma sembra che anche loro abbiano delle stagioni. Solo che i piccioni non interessano a nessuno, a qualcuno fanno persino paura o schifo: topi con le ali li chiamano. E allora non c’è stato mai un detto per i piccioni, non si dice “Un piccione non fa inverno”, e quindi i piccioni emigrano in autunno, appena arrivano i primi acquazzoni, e nemmeno una persona se ne accorge. Neanche io, che percorro tutti i giorni questa strada di mattoni prefabbricati a forma di V, e che tutti i giorni supero la fontanella che dà sulla curva appena prima delle scale che portano all’entrata della metro.
Chissà se i piccioni si riconoscono tra di loro, o se si immaginano come li vediamo noi, tutti uguali, indistinguibili, occupati in misteriose attività inutili ai nostri occhi. Chissà cosa pensano di noi i piccioni quando ci osservano, se lo capiscono che non siamo tutti identici, solo simili, anche dentro questa stazione, ognuno occupato a raggiungere misteriose destinazioni, agli occhi dei piccioni inutili.
E poi i piccioni volano che è il sogno base di ogni essere umano. Fanno schifo, mangiano rifiuti, ma almeno hanno le ali, mentre noi facciamo schifo però viaggiamo sulle scale mobili, quasi sempre guaste come queste della stazione di Policlinico. Così ci ammassiamo in file ansiose e traballanti, attenti a non toccarci, e proviamo a ricordarci cose belle anche se inutili per i piccioni, che loro possono volare. Il pensiero che forse anche un piccione vive meglio di me, per un momento mi trattiene il fiato. Forse è solo una conseguenza della mattina, quando tutto sembra in bilico, soprattutto l’umore. E allora sospiro, lo faccio forte affinché possa ascoltarlo al di sopra di questo brusio scomposto misto a filodiffusione.
La ragazza di fronte a me si volta. Mi guarda con la faccia sbigottita, io non capisco e indietreggio.
– Ma che fai porco? Mi ansimi sul collo?
Urla, ma forse non ce l’ha con me, qualsiasi cosa sia non ho fatto nulla.
– Non fare il finto tonto, stronzo, dico proprio a te. Cazzo fai è?
Adesso ho la certezza che sta parlando proprio a me, mi si avventa contro, mi dà una spinta, intorno a me si crea un vuoto, le persone si allontano istintivamente, come piccioni a cui tiri un sasso. Una persona in basso grida.
– Io a quelli come te li castrerei!
– Hai ragione che tanto mica guariscano sti malati!
Gli risponde una signora anziana, due o tre teste dopo di quello. Io non so cosa fare, né cosa dire, perché qualsiasi parola sarebbe interpretata come quella di un qualsiasi criminale che si dichiari innocente anche di fronte all’evidenza. Da dietro mi arriva uno schiaffo. Non ci provo nemmeno a capire chi è stato, c’è un momento in cui pure un piccione capisce che deve volare via. Mi arriva una spinta da dietro, inciampo e cado in ginocchio su un gradino, la ragazza continua a inveire e approfittando della posizione mi dà una ginocchiata. Mentre la scala prosegue la sua corsa, la folla comincia a scagliarsi nascondendosi nella sua stessa massa di piumini blu e facce tutte uguali come quelle dei piccioni; non distinguo più quanti e di che tipo sono i colpi che mi arrivano ormai da ogni direzione. A volte la fuga è impossibile, anche se si avessero le ali.
Eppure scatto, alla maniera degli umani, con le gambe, facendomi largo tra la gente a gomitate, cercando di evitare i pugni e i calci, e piovono insulti sul mio sgomento che si è fatto panico di animale braccato. Poi un colpo più forte. Un bastone o un manganello, sulla mandibola ma io l’ho sentito pure su una spalla.
Un’aria calda che sa di suole di gomma mi penetra nelle narici. L’aria calda tende verso l’alto.
Forse se stendo le braccia riesco a planare.