La migrazione dei giganti – 9. Sala d’attesa
di Roberto Albini
Alla fame ci si arrende. Di qualsiasi tipo essa sia. Vado sul sito del Comune, alla pagina dedicata agli ordini di cibo. Il menù è una lunga sequenza di immagini di vari tipi di piatti, dai più semplici ai più complessi. Ogni nazionalità ha il suo spazio specifico, c’è anche un menù vegano, uno kocher, uno vegetariano e così via, cercando di accontentare tutti, perché nessuno abbia a lamentarsi, già che per lamentarsi ci sono già troppi motivi. Inserisco il mio codice personale, poi chiedo agli “ospiti” cosa devo ordinare. Il Primo chiede sette fettine panate e patatine fritte poi, parlando per nome del Secondo che continua a rovistare in giro, aggiunge sette mele verdi.
Non commento e inizio a digitare l’ordine, ma lettera dopo lettera inizio a pensare che potrei approfittare in qualche modo di questa situazione. Mi viene in mente un vecchio film in bianco e nero, dove una vecchia vedova veniva aggredita in casa da degli sconosciuti che poi erano rimasti per tenerla prigioniera. La vecchia alla fine si salva avvelenandoli con del sapone per i piatti. Io a disposizione ho qualcosa di meglio del sapone per i piatti. Potrei ordinare due bottiglie di Amica, drogarli e poi chiamare aiuto. Mi sembra un piano semplice, realistico, fattibile. Così in mezzo alle fettine panate ci infilo pure l’Amica, sperando che magari non la conoscano e la scambino per acqua minerale.
Quando finisco di fare l’ordine, assicuro gli altri che è tutto a posto, e presto, entro un’ora al massimo potranno mangiare. Il Primo annuisce, senza dimostrare particolare entusiasmo, poi si siede sul divano, accanto al bracciolo, come ci fossero altre persone a cui far posto. Si mette le mani sulle ginocchia, e rimane fermo ad aspettare, guardando una parete. Dà l’idea di una persona a cui non serve spazio, nonostante la sua mole. Il Secondo invece sembra che si cibi di movimento; fa venire in mente quelle persone che non si fermano mai, che si tengono sempre impegnate in qualcosa di solitamente inutile, per paura di riflettere su chi sono realmente. Io pure rimango seduto, e osservo la scena. “Eccolo”, penso, “l’effetto sala d’attesa”.
Ci penso sempre a questa cosa, quando rimango solo, a stretto contatto con altra gente. Come in ascensore o in una sala d’attesa, dal medico, mentre si aspetta una ricetta, o in fila alle Poste che a pensarci bene è anche più ridicolo. Pochi essere umani stipati in pochi metri quadri, e scatta inevitabile ricerca della solitudine, il ritrarsi, il cercare di ripararsi lo sguardo con qualcosa, pur di negare la presenza dell’altro. Dicono che siamo animali sociali, ma forse ci siamo evoluti, e adesso siamo diventati asociali, o forse è sempre stato così e gli altri non sono mai stati un’esigenza ma una necessità. La riproduzione, la caccia, il lavoro pesante, la guerra, sono tutte cose che non si possono fare da soli, per questo ci siamo uniti. Ma poi istintivamente, quando ci troviamo in uno spazio ristretto con i nostri simili, ci ignoriamo, perché non ci servono a nulla, anzi ci rallentano, ci tolgono l’aria; si finisce in coda, al cinema, dopo un certo tipo di risultato elettorale, o nel vagone di una metropolitana, a desiderare l’estinzione completa dell’umanità. Il mondo è un enorme sala d’attesa, dove facciamo di tutto per evitarci, per far finta di leggere, o avere qualcosa di importante da fare, pur di alleviare al massimo il fastidio naturale che ci procurano gli altri.
– Di solito non ci mettono più di un’ora.
Non so bene a chi mi rivolgo, ma questo silenzio mi mette ansia, e spero qualcuno raccolga.
– Non c’ha problema.
Risponde il Primo.
– Mi stavo domandando, se posso, questo suo accento… Di dove è lei?
Non so perché mi rivolgo a lui dandogli del lei.
– Di Macerata, di Italia.
– Emigrato?
– Sì, di Macerata a Roma.
– Dunque è italiano. Anche il suo amico?
– Quale amigo?
– Lui, quello dietro di lei…
– Lui no è amigo, lui è compagno. Stava nella stanza con me.
– Quale stanza?
– Quella dove stava con lui.
– E’ da quella stanza che siete fuggiti?
– No, la stanza si è rotta e noi ha camminato fino a qui.
– Ma questa stanza, dove si trovava?
– Sotto.
– Sotto cosa?
– Sotto il Gasometro.
In quel momento una luce laser rossa proietta un puntino sulla parete. E’ il segnale che il drone è arrivato e bisogna aprire la finestra. Si è fatta sera, e i giganti hanno ripreso a dormire. Non si sentono più i loro passi rimbombare per le strade, ma solo un mesto brusio di respiri che si fondono col rumore delle eliche del drone.
Io imparo a memoria le targhette degli ascensori per non guardare in faccia la gente. Anzi ho preso l’abitudine di salire le scale a piedi, non mi fido degli ascensori!
Io giro col cappuccio, gli occhiali da sole con qualsiasi tempo, e le cuffie. Sono un professionista.
Metti anche i guanti, trovi sempre quello che vuole stringerti la mano!
Ho l’amuchina, vale?
Ti secca la pelle, troppo alcool
Oh! Come ti permetti di distruggere tutte le mie certezze in nemmeno una riga??!
Sono un grillo parlante è il mio lavoro! :P
Per essere un grillo hai buon gusto nel vestirti.
Dove? Quando? Che vestito??
Immagino…
Fiuuu meno male! Stavo già guardando sotto il tavolo! :D
Sotto il tavolo è da maleducati, io uso solo web cam sugli scaffali.
La mia mansarda non consente l’uso di scaffali!
Lo so che stai in una mansarda, ma non volevo renderlo pubblico…
Bel bluff complimenti!
Sto cercando di applicare l’effetto sala d’attesa anche al mondo vegetale. Mia mamma teneva due piante di gerani una accanto all’altra, a stretto contatto, su un davanzale di casa. Una cresceva più in fretta dell’altra, che sembrava esserne consapevole e perciò in qualche modo si ritraeva, come per non rubare aria, spazio e luce alla prima. (Ho quasi paura a chiederti cosa ne pensi).
Che è meraviglioso, e che ci credo. Pensaci: persino i pianeti si respingono…
Quant’è vera ‘sta cosa della sala d’attesa…
In verità ci sono delle eccezioni, e si chiamano anziani. Ma noi saremo anziani diversi credo.
Davvero? Non l’avevo notato. Ma sarà rassegnazione. Chissà, non sono pronto a pensarmi anziano.
E io ci penso invece. Ma così, per scrupolo… hem…
Contavo sulla mia scarsa immaginazione, invece ti ho immaginato comunque :o
Contento te :)
Non direi contento, proprio no :o :)
E mi sembrava :)
Adesso prima di dormire dovrò cercarmi un’altra immagine che scacci questa, uff.
Pensami in tuta
No però non infierire!
Pensa alla mia badante di venticinque anni svedese.
Molto meglio!
Hai visto che ce l’abbiamo fatta?…
Non era scontato, dato il pessimismo.
E’ perché voi giovani siete così, scoraggiati..
E corrodiamo le fondamenta del mondo; ci vorrebbe… ci vorrebbe… no ci penso un’altra volta, già c’ho in testa la svedese e lo spazio è quello che è.
Fico. Dove si compra la testa svedese, la voglio anche io
“Ho in testa la svedese”, non “ho una testa svedese”… E cosa ci faresti con una testa svedese?
Avrei gli occhi azzurri e sarei biondo. Ti pare poco.
Bah.
ecco perché non ho più dita da mangiare… dannata umanità troppo vicina…
No quella si chiama ansia, ma si cura.
Errore… Quella si chiama rabbia nascosta … E non si cura ( tiè)
Non c’è niente che il vino o le droghe non curino.
Altro errore… Nascondono… Piacevolmente, tanto, ma non curano…
Una cosa nascosta per sempre, non esiste.
È come dire che quello che non si vede non esiste… Riduttivo non trovi?
No reale. Mettiamo tu abbia venti euro che ti prendo e ti seppellisco in un prato. Potresti affermare di possedere venti euro?
Io direi di si… L’unica cosa che cambia è che non li posso spendere… Ma posso trovarli e farne ciò che voglio ( di base tu saresti un po’ stronzo… Fino anche non li trovo)
Ah-Ah! provaci a trovarli provaci!
certo che ci provo! armata di badile e zappetta… vedi quanti buchi faccio ( no! era un altro quello…)
Sì ma dove? Inizi in Alto Adige e finisci in Sicilia? Buon lavoro!
Alto Adige?… checcentra??
( ho solo del tempo…)
Non so, a voi sopra il Tevere mi vi immagino sempre mentre lottate contro una tormenta di neve. Bho.
ti svelo un segreto… anche qua capita il caldo da pantaloncini e canottiera.. a volte addirittura costume… sai, succede più spesso di quanto ti immagini…
E’ la linea di pericolo, la zona da non valicare, nOn oltrepassare la linea gialla !! E chi si muove, adesso poi, proprio no.
Perché che succede adesso? (non male il pezzo, un po’ troppo allegro, ma bello)
Sono nella Zona di protezione ove mi illudo che nulla mi tocchi, non distrarmi ora che sento i passi di una cOsa più grande di me sovrastare la musica…
Giuliano Ferrara?
Ahhahhahh
Forse sono nel posto sbagliato. Io in ascensore, in fila, in luoghi angusti dove non abbiamo scelto di stiparci ma siamo costretti dalla forza-degli-eventi, sono quello che non sopporta quell’ipocrita silenzio, quegli sguardi che cercano di capire il senso della loro vita leggendo con un sguardo mai così profondo la targhetta che recito il massimo numero di persone e la portata massima in kg, quando non ricordano nemmeno più quanti dacagrammi sono in un chilogrammo. E allora rompo gli indugi, rompo i silenzi altrui, entro nella DangerZone e – diciamola come sta – scasso la minchia. Trovo un modo per ricordare che lì dentro ci sono anche io e non sono una tapezzeria, un sedia di modernariato o una scritta graffiata sgraziatamente sul rivestimento dell’ascensore. Evitatemi, non entrate in quell’ascensore, scegliete un’altra fila. Sono emigrante anche io, i miei mi dicono che sono di Napoli, ma forse mi hanno adottato e ora lo so: sono di Magerata.
Sei tu, dunque, quello che scassa il cazzo con le mezze stagioni in sala d’attesa mentre aspetto la ricetta. Buono a sapersi.
No quello delle mezze stagioni è un altro e, quando lo vedo, mi metto a leggere gli orari di ricevimento del dottore oppure sfoglio EvaTremila al contrario. So’ razzista pure io!
La teoria della socialità è correlata alla densità di popolazione. Umani, come tutti gli animali (tranne forse i primordiali virus, che conteniamo), ci limitiamo in numero. Pestilenze e guerre a questo servono, facendola molto breve. Risorse e spazi non sono infiniti. Un ascensore mette subito alla prova. Io trattengo il respiro, all’inizio. Nemmeno i profumi, piuttosto gli odori. Poi muovo una leva, dentro. Tolgo lo sguardo dalla targhetta e fisso il primo coinquilino cercandone lo sguardo. Mi piace il rischio…
Sono entrato nel mood. Sono uno zelig.
Complimenti Roberto. Ottimi dialoghi e architettura, non scontata. Piaciuto soprattutto il finale.
Bel racconto.
[Waiting next one… ]
Gli odori me li ero scordati è vero. Grave mancanza. Nella seconda stesura ce li metto però.
yeah! son venuta… ce l’ho fatta….
senti senti… bello come al solito! quando ti leggo, lo faccio con un pizzico di teatralità malinconica mista a romanticismo… e mica lo so, ma mi viene così…
se fossimo alle poste, in ascensore, o ad aspettare la metro… potremmo chiacchierare? ups… ti ho appena toccato il braccio: ho invaso il tuo spazio vitale, ve?!”?!?! :-D
Senti però te lo devo dire: l’incipit di questo commento è imbarazzante :D
Cioè? Fa schifo? Imbarazzante x te o x me? Dici dici…. Che poi non me ricordo piu il commento non ne parliamo va………
Io a momenti non ricordo nemmeno più chi sono:)
uh e lo dici a me…. tante volte manco me ricordo che esisto… vabbè ho esagerato va…. come mi chiamo è meglio… e manco che ti avevo scritto al commento a cui mi hai risposto così….
Non ci ho capito niente. Può succedere no?
azz se succede…. ma che ci frega????? sei ancora il mio gnoccapo, ve???