Dodo (XI – Non c’è più nessun maestro)

di Roberto Albini

Quasi inconsapevolmente ci portiamo dentro un ineludibile senso d’infinito, quasi la natura non ci volesse far capire che tanto dobbiamo morire. Non si vive guardando l’orologio per sapere quanto tempo manca prima di non avere più tempo. In qualche modo si è incoscientemente portati a credere che si avrà sempre un margine per effettuare manovre di assestamento. Può succedere allora che un giorno ci si renda conto di essere in leggero ritardo, diciamo cinque minuti, un ritardo ragionevole in fondo rispetto alla durata dell’esistenza. Ma il giorno dopo il ritardo non si recupera, anzi raddoppia. Altri piccoli cinque minuti, che diventano dieci, e così per il resto della vita. Un piccolo ritardo che si somma ad altri piccoli ritardi finché a un certo punto non si è più in grado di arrivare puntuali. Cessa quella maledetta sensazione d’infinito, confusi si inizia a camminare più in fretta verso nessuna direzione stabilita, poi col fiatone si aumenta il passo, si corre in maniera scoordinata, i muscoli doloranti, ma non si è diretti in nessun posto, si procede solo avanti. E in quelle occasioni, con lo stato d’animo di un condannato che esprime il suo ultimo desiderio, presi dal panico di aver buttato al cesso un’intera esistenza, compiamo scelte. I bivi ci prendono alle spalle.
A me capitava lo stesso, Signori della Corte. Fino a quando non ho incontrato Dodo, e tutto si è livellato, tutto quello che avevo fatto fino allora chiuse il cerchio di una ruota che da quel momento iniziò a girare regolare. Ricordo che vidi il mio futuro e che aveva la forma di un piede. Immaginatevi il mio stupore, Signori, quando Dodo mi condusse al suo monastero e vidi quell’enorme statua di un piede erigersi maestosa e fiera al centro della radura, proprio lì dove sembrava poter osservare tutto e tutti. Un segno del destino, pensai. Come se il destino esistesse sul serio.
Il piano era semplice. Io avrei parlato con il Maestro Testa di Legno dicendogli che mi prendevo Dodo, e se avesse fatto storie gli avrei proposto dei soldi. E’ un metodo che non fallisce mai. Dopo avrei dato inizio al progetto vero e proprio. Qualcosa però andò storto. Testa di Legno mi disse che lui non aveva alcuna autorità su Dodo, che questo tipo di decisioni le poteva prendere solo il Grande Maestro Supremo Testa di Orso, ma che purtroppo lui erano trecento anni che si era chiuso nella sua stanza per imparare l’arte di campare solo d’aria, e per questo motivo non poteva lasciarmi andare via con Dodo. Non cedette nemmeno quando gli feci capire che avrei pagato qualsiasi cifra per quel riscatto. A quel punto pretesi di parlare con il Maestro Supremo, cosa che scatenò l’ilarità di Testa di Legno che scuotendo le spalle si congedò senza neanche salutare. Dunque avremmo dovuto fare in un altro modo.
Aspettai la notte, e con una lampada ad olio mi intrufolai nei meandri del Monastero diretto alla torre dove il Grande Maestro Supremo Testa di Orso si era ritirato vittima delle proprie manie. Gli avrei parlato a tutti i costi e l’avrei convinto. Così dopo una buona mezz’ora passata sostanzialmente a perdermi e a salire scale, giunsi finalmente davanti la porta dell’eremo. Era un piccolo uscio di legno mezzo marcito, dove a mala pena si notava un’incisione a forma di piede come unico adorno. La maniglia, arrugginita, penzolava molle retta solo da una ragnatela. Bussai, e aspettai qualche istante, senza ricevere nessuna risposta. Intorno a me solo il buio e l’eco lontano delle scorregge provenienti dalle camerate. Decisi quindi di entrare. “Permesso?”,  ma ancora una volta non rivetti nessun cenno di presenza umana. Avanzai un passo alla volta, un po’ intimorito; nell’aria un puzzo di muffa e qualcos’altro che non avevo mai sentito, che sapeva di marcio e sporco. Poi colpii col ginocchio qualcosa di duro che una volta illuminato rivelò essere una grande sedia, quasi un trono, ed ebbi un sussulto nello scoprire che da dietro lo schienale spuntava un braccio. Non so perché, mi venne forte l’istinto di inchinarmi.
“Maestro, sono venuto a parlarle”. Silenzio. “Maestro, è una cosa importante, la prego”, insistetti. Ancora silenzio. Allora presi coraggio e toccai quel braccio che cedette alla mia mano trasformandosi in poltiglia polverosa. Girai intorno al trono e mi si parò davanti uno scheletro vestito di rosso che in quel momento perse l’equilibrio con il quale era rimasto miracolosamente unito tutto quel tempo, e mi precipitò addosso in una nuvola di terriccio maleodorante. Il cranio del Grande Maestro Supremo Testa di Orso rotolò sui mie piedi. Non c’era più nessun maestro.
Ho detto di aver visto il mio futuro, Signori della Corte, e forse per punirmi di tanta vanità, il futuro in quel momento cambiò strada.
I bivi ci prendono alle spalle.