Dodo (VIII – “C’è un tempo per astenersi dagli abbracci e un tempo per gli abbracci”)

di Roberto Albini

Andava tutto bene. Fino a quando non sono diventato adulto. In effetti “tutto bene” è esagerato, andava semplicemente meno peggio, ma andava. Fino all’inizio dell’adolescenza eravamo tutti più o meno uguali, almeno ai miei occhi, a parte le solite storie personali che già a quell’età ci portavamo dietro. Insomma, io mi sono ritrovato in mezzo alla gente all’improvviso, e che ne potevo sapere della gente? Io sapevo di capre, ma di persone poco, fu come trovarsi nella savana di fronte a un animale che si può ritenere appartenente a una certa famiglia, ma del quale si ignorano i comportamenti. Per questo consideravo naturale l’atteggiamento schifato con il quale mi trattavano, frutto di un qualche meccanismo a me sconosciuto ma che tra la gente doveva avere una sua logica, e non lo combattevo. In fondo ero il più forte, e quindi schifato con rispetto. E sospetto.
Ecco, il sospetto che serpeggiava da sempre intorno alla mia anormalità, si trasformò in certezza quando divenni un adulto. Gli altri crescevano in altezza, proporzionati, mentre a me la prima cosa che crebbe fu la testa, enorme rispetto al busto che invece era rimasto bambino. Dopo la testa mi crebbe il pisello, anche lui sproporzionato forse più del cranio, tanto che i ragazzi iniziarono a temerlo, pensandolo qualcosa di estraneo a me, e dotato quasi di una propria volontà, quasi fosse una bestia. Alla fine rimasi per sempre così, e parve dunque evidente che io non ero come il resto degli allievi, né come qualsiasi altra persona conosciuta. L’emarginazione si fece a quel punto pressoché totale, e non solo nella vita sociale, come ero abituato. I ragazzi smisero di voler lottare con me, dicevano che ero un demone, che il Grande Piede si era voluto vendicare per qualche motivo, e che nessun essere umano avrebbe potuto battere un demone.
Per un inverno intero, rimasi fuori la stanza, ad osservare la gente fare la gente, comportarsi da gente, con quei modi strani che ha la gente. Loro semplicemente mi ignoravano, trattandomi come lo stipite di una porta, come la crepa sulla tela che rovina il quadro, ma io non protestavo, né chiedevo spiegazioni. Accumulavo aria.
Poi un giorno il Maestro Testa di Legno venne e senza salutarmi fece cenno di seguirlo. Durante il tragitto, nel quale lui mi precedette sempre senza mai girarsi a guardarmi, spiegò che non potevo continuare a stare nel convento, dato che non ero più un allievo, e che sarei potuto rimanere solo rendendomi utile in qualche modo. Nella mia memoria di nano, quel discorso si mescolò a quello che mi fece Testa di Manzo, prima di consegnarmi al venditore di bambini. In tutti e due i casi c’era questa parola, utile, spacciata per valore bilaterale e interpretata invece in maniera unilaterale. Continuò dicendo che sarei potuto rimanere a patto che mi occupassi della cucina, che avrei ricevuto vitto e alloggio ma che non mi sarei mai più potuto allenare. Un vero contratto di lavoro dunque.
La cucina serviva quattrocentosessantadue persone tutti i giorni a pranzo e a cena. Era una specie di grotta male illuminata. Col tempo i grassi della cottura si erano depositati sulle pareti e avevano formato uno strato denso e molliccio che ricopriva tutto il perimetro, compreso il soffitto. Gli utensili erano pochi, così come le pentole, vecchie e arrugginite, ma tanto il menù consisteva da sempre in un unico piatto, il cachiri bollito, e per quelli si aveva bisogno solo di una cofana e un mestolo. Il problema del cachiri è che è avvolto da una buccia spessa, più erta di quella del cocco, e che per aprirlo è necessaria una manovra col coltello che si impara solo dopo una lunga pratica. Quindi passai l’estate a sbucciare cachiri, e a bollirli in questi enormi pentoloni unti dentro il quale finiva anche il sudore che a quella temperatura era inevitabile.
Quello fu sicuramente un anno no.
Rompere i cachiri era diventata la mia unica attività. Per essere puntuale a pranzo dovevo iniziare a lavorare molto presto la mattina, perché era lungo e complicato, poi continuare senza sosta anche il pomeriggio per non tardare la cena, mentre la sbobba nei pentoloni non cessava mai di ribollire ed emanare orribili odori. Quando adesso mi domando come ho fatto a resistere, non so rispondere. Una volta ho sentito dire che c’è un tempo per astenersi dagli abbracci e un tempo per gli abbracci. Quello forse fu il tempo nel qualche non volli abbracci.
Era prestissimo, quella mattina. Fuori era ancora buio, e nell’aria riecheggiavano fiochi gli echi di scoregge provenienti dal dormitorio. Quando arrivai nella cucina scoprii che nottetempo avevano scaricato una quantità esagerata di cachiri. Mi dolevano le mani ancora dal giorno precedente e la consapevolezza di un’altra giornata passata a pelare mi afferrò allo stomaco togliendomi il respiro. Allora, per reazione, inspirai profondamente, i polmoni si gonfiarono quasi a scoppiare, una grossa vena sulla tempia destra prese a pulsarmi. Stavo rispondendo al disagio con una tecnica di combattimento, la stessa con la quale stendevo gli avversari in palestra. Ci fu un attimo in cui mi resi conto di cosa stavo per fare, ma ormai il processo era avviato e dovevo colpire o sarei imploso. Gettai con forza tutta l’aria che avevo accumulato come mi trovassi di fronte a un avversario, generando un soffio potente che durò quasi un minuto. Alla fine caddi al suolo esausto, finendo con la bocca sopra un cachiri. La cosa strana è che non era duro, al contrario era molle come quando li bollivo, e subito dopo mi accorsi che un dolce odore aveva pervaso l’aria, riuscendo perfino a sconfiggere l’antico puzzo delle pareti. Afferrai il cachiri e gli diedi un morso. Era il cachiri più buono che avessi mai assaggiato.
E seppi che era giunto il tempo degli abbracci.