Dodo (VI – L’angolo con il quale la luce entra dalle finestre)

di Roberto Albini

Così ho passato tutta la mia gioventù e parte dell’età adulta ad apprendere a trattenere il fiato. La parte più difficile è stata accettare che non si respira solo con i polmoni, perché tutto il nostro corpo in verità non è altro che un grande accumulatore. Più che altro di aria e acqua. Siamo come grandi boccioni che girano ignari, sentendosi forti della loro stabilità e robustezza, mentre dentro è tutto un agitarsi di onde, di correnti, un rimescolarsi continuo di liquidi e fluidi, i quali moti erodono il corpo come fa il mare con la costa. Il cervello non è immune a questo fluttuare, così che anche i pensieri e le idee, le opinioni e i sentimenti che egli contiene, non fanno altro che rimescolarsi a cercare di formare la mappa di un oceano che non avrà mai forma. Si iniziava prestissimo la mattina, quando i maestri ci tiravano giù dalle brande, insultandoci e prendendoci a calci per aumentare la nostra volontà di trovarci da un’altra parte, per far sì che ci calassimo nel nostro ruolo di contenitori di desideri impossibili, e così accrescere la disillusione necessaria ad ammaestrare il nostro respiro. E’ difficile per noi nani, mettere tutto in fila, tutto in ordine cronologico. Nella mia mente passato e presente convivono naturalmente nello stesso istante, e fatico, signori, a raccontare seguendo una narrazione coerente con lo svolgimento dei fatti. Le persone, le situazioni, persino i pensieri si assomigliano tutti dopo un po’. Se voi alti avreste la possibilità di ricordare tutto come noi, vi rendereste conto di quante volte avete compiuto gli stessi gesti o detto le medesime parole, e che intorno ogni volta cambia solo lo scenario, l’ora del giorno, l’angolo con il quale la luce entra dalle finestre. Non vi stupite, dunque, se non ho percezione di quando ho iniziato a diventare così bravo da essere il migliore di tutto il monastero. Nel momento in cui ci si racconta, tutto assume un valore eterno, assoluto, quindi dirò semplicemente così, che ero il più forte, come lo fossi sempre stato, con lo stesso piglio dell’amante che giura di non aver amato così tanto prima, né che lo farà uguale dopo. Alle nove della mattina, tutti i giorni, passavamo a baciare il piede, poi ci riunivano nella Grande Arena Centrale, e lì ci facevano combattere tra noi. Ne ho buttati giù così tanti che i loro volti nella mia memoria si sovrappongono uno sopra l’altro e alla fine si trasformano in un’unica persona che ha i tratti di tutti, quindi di nessuno. Il maestro portava due di noi a caso all’interno di un cerchio disegnato con il gesso, poi lui usciva e dava il via all’incontro. Noi ci trovavamo uno di fronte all’altro, nella posizione di guardia senza guardia caratteristica della nostra arte marziale. Poi rimanevamo per un po’ in silenzio, ad accumulare rancore verso la vita, usando la consapevolezza della nostra misera esistenza da orfani, tentando di scagliare sull’avversario il peso di tutte le colpe dell’universo intero concentrate in un soffio. Quando osservavo il mio antagonista, non potevo far a meno di vederlo come una boccia d’acqua, un ridicolo contenitore di fluidi e pensieri inutili, impossibile da temere. E impossibile da amare.