L’uomo che morì per l’abbaiare di un cane (Parte III)

di Roberto Albini

Michela non aveva idea di cosa fare, né di cosa dire, ma solo il fatto che qualcuno si aspettasse qualcosa da lei la metteva in imbarazzo rispetto all’intera umanità. In fondo lei non era altro che quella che era, semplicemente se stessa. Erano gli altri, semmai, ad averle affibbiato il suo ruolo nella società. Nel suo caso la parte di maga, così enfatizzato che perfino un amico così intimo come una delle persone con le quali condivideva il proprio appartamento si aspettava da lei addirittura un miracolo. Ecco, è come se uno che sa raccontare bene le barzellette fosse elevato al rango di comico, come se uno che sa far bene il comico fosse eletto presidente del consiglio. E’ la gente che fa di un sasso una roccia, di una palude una riserva naturale. Il fango sa di esser tale, e non si preoccupa della sua natura fino a quando qualcuno non pretende altro da lui.
Chiara questo lo aveva capito molto tempo prima, quando per caso una vecchia misteriosa l’aveva insignita di portatrice di verità, al di là del fatto che lei quella verità la potesse comprendere o meno. “Insomma, tra me e te, chi ha avuto di più a che fare con la morte sei tu, o sbaglio?”, rispose mordendosi un labbro. Era una difesa disperata, ne era ben conscia, ma quella era una battaglia a chi si dovesse prendere in carico la responsabilità della situazione e, come in una vera e propria guerra, qualsiasi strategia era valida purché portasse alla vittoria. Il colpo che lei aveva tirato, in un tentativo maldestro di distogliere dalla sua persona l’attenzione, ebbe successo. Manuel strizzò gli occhi poi prese a cercare gli arnesi del suo vizio sparsi nella confusione. Afferrò d’istinto una cartina mentre con una mano fabbricava il filtro. Fissava il libro e con l’accendino squagliava il fumo. Bisbigliava frasi incomprensibili, fino a quando sibilò un “… Ma tu che cazzo ne sai…”. Patrizia comprese di aver fatto breccia in qualche modo e aumentò la dose: “Sì, dai, insomma, hai ammazzato una zebra, che è pur sempre un essere vivente…”. Manuel aggrottò le ciglia, concentrandosi sulla fabbricazione della canna per non dover seriamente pensare alla risposta. Non disse nulla, estrasse la lingua a bagnare la cartina e con un gesto rapido chiuse lo spino. Poi si girò verso la parete, e fece schioccare l’accendino. Un filo di fumo denso si levò verso il tetto. Forse aspirava a raggiungere il cielo, ma tutto ciò che riuscì a fare fu lasciarsi inghiottire da un lampadario da quindici euro e sessanta di Ikea.
“Tu parli ma nemmeno sai di cosa”, affermò perentorio Manuel. “Questo siete capaci di fare, ipotizzare. La vita mia l’ho vissuta io, non voi, per questo parlate, parlate, ma in fondo non sapete un cazzo di niente”. Poi rimase in silenzio, seguendo con lo sguardo il suicidio inevitabile del filo di fumo. “Vuoi sapere cosa successe veramente? E’? Lo vuoi sapere?… O preferisci continuare con le tue teorie?”. Marianna distolse lo sguardo annuendo verso la parete.
“Lo sai, ero un carabiniere a quei tempi. Non che ci credessi, anzi non sapevo nemmeno in cosa dovesse credere un carabiniere. Per me era un lavoro, come vendere hamburger, come riparare tubi forati. Una funzione, nient’altro. Eppure lì dentro tutti erano convinti di essere persone elette ad uno scopo più alto, servire la patria. Io non sapevo nemmeno qual era la mia patria, non sapevo neppure quale fosse il mio scopo. La disoccupazione mi diede un mestiere, un mestiere di merda. Come tutti i mestieri. Non c’era nessun massimo sistema a giustificare la mia abitudine a fumare droga, ma nemmeno nessuna filosofia, o morale a impedirmi di farlo. Molti tendono a mitizzare in chissà quali insoddisfazioni cosmiche le scuse che inducono qualcuno a drogarsi o a ubriacarsi, sottovalutando il fatto che stare fatti fa star meglio. Inspiegabilmente nessun sociologo, o psicologo, o filosofo spreca un grammo dell’inchiostro della sua penna a soiegare perché le persone vanno al mare, in vacanza, o ascoltano musica. Invece, chissà perché, per i drogati c’è sempre un motivo esistenziale e misterioso a celare la causa di quella loro attitudine. Bhè, sappilo: io mi drogo perché quando sto fatto sto meglio. Punto. Quando mangi un buon piatto di pasta stai bene, ma nessun presentatore televisivo viene a chiederti: ‘Perché lo fai?’”. Manuel, intimamente soddisfatto di quel suo resoconto, per stizza, fece una lunga tirata di hashish. Un fumo denso e pesante rimase sospeso qualche secondo sopra la sua testa, poi si diresse a trovar la libertà dove non l’avrebbe mai trovata. “Quella sera io non dovevo essere lì. Il turno era finito e io, prima di cambiarmi, mi ero concesso un attimo di distrazione nel bagno. Quando uscii tutti erano agitati. Il capitano mi prese per una spalla: ‘Dove vai Marozzi? E’ successo un casino al circo…’. M’informarono che qualcuno aveva assaltato la cassa del circo Orfei, c’era stata una sparatoria e per creare confusione quei balordi avevano liberato le belve per coprirsi la fuga. Mi diedero una Fiat Uno, mi diedero l’indirizzo esatto dove recarmi in appoggio. Arrivai in un baleno, scesi dall’auto, caricai la pistola d’ordinanza, ma una volta trovatomi per strada non mi ricordai più cosa ci stavo facendo io lì. Mi era già successo, è uno degli effetti secondari del fumare erba. Provai a concentrarmi, ma i miei pensieri prendevano strade assurde verso cunicoli che non interessavano la realtà. Il vero è troppo poco affinché la mia attenzione possa trovarvi qualcosa d’interessante. Così restai con l’arma in pugno, a guardare il cartellone della pubblicità di un film, e tutti i miei sensi tesi a godersi quell’immagine. Fino a quando…”
Manuel tossì forte, poi scosse la canna per far cadere la cenere dentro un bicchiere di plastica. Posò il suo sguardo sul cadavere e subito dopo sul libro, entrambi stesi sul tavolo. “Fino a quando non vidi quella cazzo di zebra dirigersi a tutta velocità verso di me. In mano avevo la pistola, carica e… Ma tu che ne sai… Mi venne da ridere, così forte che con il primo sparo colpii il cartellone. C’era la faccia di un attore stampato sopra, famoso, uno dei tanti famosi, tutti uguali, tutti pettinati uguale, impossibile distinguerli. Il suo volto enorme con la fronte forata, senza sangue, e quella bestia veloce verso di me. Così caricai di nuovo l’arma. Puntai, ma non so nemmeno io a cosa. Poi un urlo, anzi no, un lamento, come un bambino che soffre, e poi la zebra stesa davanti a me. Morta. Le sirene dei colleghi, e il maresciallo che mi disarmò.”
Paola aveva smesso di osservarlo mentre parlava. Aveva scostato le tende e guardava fuori. I palazzi nascondevano il cielo, il cielo nascondeva la luna. Tutto, quella sera a Roma, sembrava volere sparire.
Manuel fissava il tavolo, il tavolo faceva finta di niente. Lucio guardava il libro, anzi oltre, oltre il cielo, i palazzi, la luna. Forse adesso stava con la zebra. Magari ci fosse un posto dove i morti si rincontrano. Ma poi, alla fine, per dirsi cosa?